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MIRELLA

Una vita in reparto: la testimonianza di Mirella Gasparrini

 

Mi chiamo Mirella Gasparrini, sono un’infermiera professionale, e ho iniziato a lavorare nel reparto di Ematologia del Policlinico Umberto I di Roma il 27 dicembre 1983. Dopo oltre quarant’anni di servizio, mi preparo alla pensione. In questo momento di passaggio, sento forte la gratitudine per una vita trascorsa accanto ai pazienti. Non mi mancherà tanto il lavoro in sé, quanto le persone: i volti, le storie, i legami. Per me, questo reparto è stato molto più di un luogo di lavoro: è stata una seconda casa, una seconda famiglia.

 

Sin dall’inizio, ho creduto nell’importanza di accogliere i pazienti con empatia e chiarezza. Il primo colloquio è sempre stato un momento centrale: serve a spiegare cosa succederà, ma anche a far sentire che non sono soli. Uso spesso una metafora: “Siamo tutti su una barca e dobbiamo remare nella stessa direzione”. Il percorso di cura è lungo, fatto di giorni buoni e giorni difficili, ma si affronta meglio se si sa di poter contare su qualcuno.

 

Ai pazienti dico sempre: “Viviamo l’oggi. Risolviamo il dolore di oggi, la nausea di oggi. Domani penseremo a domani”. È questo approccio, passo dopo passo, che fa la differenza. La cura non è fatta solo di farmaci, ma anche di ascolto, presenza, parole giuste al momento giusto.

 

Nel corso di questi anni ho visto una vera rivoluzione nella medicina ematologica. Negli anni ’80, i trapianti venivano eseguiti in stanze senza ventilazione, i familiari aiutavano a pulire con vaporelle, i pasti venivano cucinati a casa. Le terapie erano molto aggressive, e gli effetti collaterali spesso durissimi.

 

Oggi tutto è cambiato. Le camere sono dotate di pressione positiva e filtri HEPA, per ridurre al minimo il rischio di infezioni. Utilizziamo farmaci mirati, che attaccano selettivamente le cellule malate, e tecnologie avanzate per prevenire complicanze. Per esempio, per evitare le mucositi (infiammazioni dolorose della bocca e del tratto digerente), oggi usiamo anche il laser a scopo preventivo.

 

Uno dei cambiamenti più significativi è stato l’arrivo di terapie innovative come il Defitelio, un farmaco che ha rivoluzionato il trattamento della malattia del trapianto contro l’ospite, conosciuta anche come GvHD (dall’inglese Graft-versus-Host Disease). È una grave reazione che può insorgere dopo un trapianto di cellule staminali, in cui il nuovo sistema immunitario attacca l’organismo del paziente. Un tempo avevamo pochissime risorse per contrastarla; oggi possiamo agire in modo più efficace, salvando vite e migliorando la qualità del percorso terapeutico.

 

Accanto a noi, sempre, ci sono stati i volontari. All’inizio erano una presenza quotidiana, quasi famigliare: portavano giornali, facevano compagnia, lavavano la biancheria a casa. Persone come Paola Gentilucci, che non dimenticherò mai. Col tempo, il volontariato si è trasformato: oggi offre anche supporto organizzativo, logistico, raccolte fondi, ed è diventato un pilastro per tutto il reparto.

 

Una parte fondamentale di questo sostegno è rappresentata da AIL Roma, che da sempre è al fianco dei reparti di Ematologia della città. In tutti questi anni, l’associazione ha contribuito in modo decisivo non solo alla ricerca scientifica e al miglioramento delle terapie, ma anche al potenziamento dei servizi sanitari, come le cure domiciliari, l’assistenza ai pazienti e alle famiglie, e il finanziamento di borse di studio e strumentazioni essenziali. Senza il loro impegno, molte delle cose che oggi diamo per scontate non sarebbero state possibili.

 

Nel corso degli anni ho conosciuto migliaia di pazienti, e con molti ho condiviso momenti che non dimenticherò mai. Come Alessandra, che ha superato una complicanza gravissima ed è diventata farmacista. Giulia, trapiantata a 16 mesi, oggi una giovane donna. Matteo, trapiantato nel 2011, che si è laureato. Gabriele, con cui giocavo in reparto, oggi è un volontario. Maria Concetta, che dopo il trapianto ha adottato una bambina e, contro ogni aspettativa, ha avuto anche una figlia in modo naturale.

Sono loro che mi hanno insegnato che ogni percorso è unico, e ogni giorno è una conquista. Ho avuto l’onore di lavorare in un reparto che portava il nome del professor Franco Mandelli. Qui sono cresciuta, umanamente e professionalmente. Ho visto colleghi fidanzarsi, sposarsi, diventare genitori. Abbiamo condiviso tutto: turni, feste, dolori, soddisfazioni. Una vera vita insieme.

 

Certo, non sono mancati i momenti difficili: burocrazia, notti insonni, turni massacranti. Ma se oggi mi guardo indietro, so che rifarei tutto. Questo lavoro mi ha dato tanto. E spero, nel mio piccolo, di aver lasciato qualcosa anch’io: una parola di conforto, una speranza, un ricordo buono.

 

Perché alla fine, in tutto questo, ciò che davvero conta sono le persone.

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